Un paio di giorni dopo la Giornata della Mamma, un’ amica e io, abbiamo cercato di fare un elenco di amiche e conoscenti che fossero incinte. E per quante di loro, questo giorno rappresentasse una specie di D-day del loro vivere, passato a guardare le foto di un bimbo appena arrivato al mondo. Un caffè tra donne si potrebbe dire di quelli normali, tranquilli, invece, no. Entrambe siamo giunte alla conclusione che vorremmo tanto avere un biglietto di sola andata per il giro del mondo, senza ritorno, senza data, fermo restando che la sottoscritta porterebbe con sé anche quel gattino che aspetto da troppo tempo. L’incontro-caffè è finito, ognuna ha preso la sua strada.
Dopo un po’ di tempo quei pensieri mi sono tornati in mente, con insistenza, sempre sullo stesso tema. Siamo state sincere?
Non posso rispondere per lei, so per certo che in parte io non lo sono stata. So con sincerità che i bambini mi rendono felice, tutti i bimbi, anche quelli che magari per caso, si trovano nei miei paraggi o vicino a me. È da sempre così. Anche se costantemente la butto là dicendo di essere contraria e vado sostenendo di non voler mai diventare madre: sono consapevole che questo è un mio meccanismo di autodifesa, perché sono andata molto vicina ad averne uno, di bambino, non una volta sola… Il desiderio, di tutti e due, c’era. Possiedo una scatola con delle cose che acquisto ogni tanto e che metto da parte. Per la mia bimba. Un giorno. Chissà quando. Se.. Non lo so quando, come, e se accadrà, so solamente che dieci anni addietro i piani che facevo allora per il mio futuro erano del tutto diversi tanto che oggi mi pare impensabile che allora ne volessi due o tre negli anni che sto vivendo oggi, come è impensabile che oggi ne voglia solo uno. I numeri non contano, ma l’amaro che provo in bocca si fa sentire sempre più anche se sono consapevole che di tempo per me ce n’è. Tutto questo mi ha fatto ricordare una storia che ho sentito poco fa.
50 anni fa una giovane mamma ha voluto celebrare i primi 36 giorni della sua piccolina: 36 perché tante erano le foto che potevano stare in una pellicola di quei tempi. Per ogni giorno con la felicità sul volto, ha cambiato vestitini alla bimba scegliendo per il suo amore dei capi alla moda e scattando una foto. Erano momeni di reciproca condivisione, attimi solo loro, e non voleva non ricordarseli. Momenti come quano apriva gli occhi, quando sbadigliava, come e quanto crescevano i capelli e tutto quello che ogni genitore conosce. Quando ha finito gli scatti e andata in un fotolaboratorio dove ha consegnato il rullino per lo sviluuppo. Purtroppo è stato un buco nell’acqua perché non aveva inserito bene la pellicola nella macchina fotografica e le foto non erano riuscite, la pellicola non ha preso nessun scatto.
Non oso pensare alle lacrime che ha versato perché solo a pensare che se qualcosa di simile fosse accaduto a me, piango adesso, 50 anni dopo, nonostante tutta la tecnologia che ci circonda. I maligni oggi direbbero, ‘ma perché non ha controllato la macchina fotografica’, perché non ne ha scattate ancora di foto, perché questo, perché quell’altro. Non l’ha fatto. E’ successo. Asciughi le lacrime con un fazzoletto e vai avanti.
Solo ieri, per dire, ho scattato almeno una ventina di foto del mio piatto per pranzo. Che è ogni giorno quasi lo stesso. Piatti che possediamo tutti, arrivano dall’Ikea, riposti sul tavolo che abbiamo tutti, anche questo arriva dall’Ikea. E divento matta se la batteria del mio telefonino non è sufficientemente carica per scattare qualcosa subito nello stesso momento in cui accade. L’idea della storia vera di 50 anni fa è quello che facciamo noi oggi. Solo che oggi lo diamo per scontato. Non credo che nel farlo ci mettiamo tante emozioni come lei perché abbiamo i filtri per le foto e per le situazioni di vita e lo facciamo sempre in più copie, ma non per evitare che accada quanto successo alla donna della storia quanto per vanità e abitudine.
Vent’ anni dopo la madre ha avuto la fortuna di veder nascere il suo primo nipote. Non sapendo se sarà un maschietto o una femminuccia, si è preparata per l’evento comprando un bel cesto bianco e due nastrini di seta per farne un fiocco. L’azzurro per il maschietto, il rosa per la bambina. Quando la figlia (quella delle 36 foto che nessuno ha mai visto) l’ha chiamata per comunicarle il lieto evento e che il primo nipote era una bimba, ha messo il nastro rosa in borsa. Mentre quell’azzurro l’ha usato l’anno dopo per il maschietto.
Anche se non sono ancora mamma, ritengo sia quanto di meglio possa accadere a una donna e penso che ogni donna sia più bella una volta diventata madre, nonostante i chili presi e altri piccoli dettagli che il periodo post-parto porta con sé. Vorrei provare e capire almeno una volta cosa si nasconda dietro la frase del tipo “che sia solo mio ancora un po'” (l’ha detto una mia amica che doveva partorire di lì a poco). Che emozione si prova a vedere per la prima volta qualcosa che aspetti tanto tempo, molto più dei proverbiali nove mesi e scattare 36 foto che significano vita. Un giorno. Chissà quando. Se…
E vorrei che la madre della storia rivivesse, 30 anni dopo, lo stesso, con la sua bambina, venendo al reparto maternità con due nastri di seta: uno azzurro l’altro rosa. Non deve scattare foto. Lo farà qualcun’ altro. Il cesto bianco esiste ancora, mi sembra sia al pianoterra.
Un abbraccio
A.